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“Mamma, allora sto partendo.”
“Ora? Co’ ‘sto caldo? Con la macchina? E se c’è l’esodo? E se incontri traffico? Non ti funziona l’aria condizionata. Te mòri de callo. Ma poi se parti mo, non arrivi col buio? Guarda, è pericoloso, ce vedi poco. Dice che sull’Appennino grandina, stai attenta che esci de strada. C’è la bolla de calore dopo Bologna, te senti male, io te l’ho detto. Vai piano, ché so’ tutti matti.”
“Mamma…”
“…che poi in Pianura Padana c’è il 100% de umidità, nun se respira, nun usci’ nell’ore de massimo calore che te riportano a casa liquesa.”
“Mamma…”
“…hai visto quello che ha fatto a Venezia, j’ha scoperchiato tutte le case, se vedi che tira vento, tornatene a casa…”
“Mamma…”
“…e stai attenta, che hai sentito de quello che ha sparato in mezzo alla strada a uno a Padova senza motivo, alla gente je dà de volta il cervello col caldo, nun dà confidenza”
“Mamma…”
“…ché poi voresti anna’ a vede’ pure la Lazio in ritiro ad Auronzo? Ma sei matta, a mamma?! Guarda che se pure te dice che dista venti chilometri, devi sempre considera’ che so’ strade de montagna, quindi devi anna’ piano e ce metti sempre ‘n par d’ore, senza pensa’ che tanto, che ce vai a fa’? Mauri nun ce sta più, Ledesma nun ce sta più, se semo vennuti tutti. Facile che manco capiti er giorno dell’allenamento e vedi ‘n par de…”
“A MA’! STO A PARTI’ MO DA CASA PE’ VENIMME A PIJA’ ER CAFFÈ DA TE!”
“Ah”
“Eh”
“Vabbè, ma allora nun pija’ la tangenziale che hanno fatto er botto all’altezza de Castrense-Passamonti e…”

Per chi ha la fortuna di avere un lavoro, il 7 gennaio è il giorno in cui si rientra dalle feste natalizie, ancora più stanchi e svogliati di quando si è abbandonato l’ufficio il 23 dicembre.
Si abbandona il letto a malincuore, ci si imbottiglia nell’usuale traffico dell’ora di punta, si incrociano di nuovo le stesse odiate facce di sempre. Si starnutiscono auguri in faccia a chi non si è deliberatamente voluto incontrare per due settimane. Ci si attaccano a ogni stretta di mano, per contatto manco fosse herpes, l’insoddisfazione e l’amarezza dell’ineluttabilità della monotonia quotidiana. E si riversano, forse, altre frustrazioni ai mal capitati di turno, ché loro non c’entrano nulla.

Questo, a meno che non si ami il proprio posto di lavoro tanto quanto la mansione che in esso si svolge. Non so cosa voglia dire, ché non ho mai lavorato nella redazione di un giornale, e forse è l’illusione figlia dell’invidia, ma credo questa mattina fosse altro il clima nella sede parigina di Charlie Hebdo. Li immagino diversi, i 12 che perderanno la vita di lì a breve e gli altri, inconsciamente ancora padroni delle loro vite.
La vita nella redazione di una rivista satirica non dev’essere necessariamente allegra come il suo prodotto finale, lo so bene. Sarà fatta anche di carte, burocrazie, problemi, questioni, censure, discussioni. E altrettanto bene so di cosa non dev’essere fatta: di attacchi, di kalashnikov, di morte, di terrore, di lacrime.
Qualcuno ha sovvertito un ordine ancestrale, quello della vita nel suo compimento, e ha cercato di silenziare non un diritto, ma un imperativo morale, quella della libertà e dell’espressione. Lo ha fatto nel modo più spietato e dannoso, coinvolgendo fede e razza, profeti e seguaci, rendendo tutti vittime di qualcosa di più grande e apparentemente intoccabile.
Vittime i giornalisti, i disegnatori, gli stagisti, le segretarie; vittime le forze dell’ordine, i cittadini, una nazione. Ma vittima sarà anche chi non c’entra nulla, qualora decidessimo di lasciarci travolgere dall’ondata di stolti pregiudizi che atti del genere contribuiscono ad alimentare. Saranno vittime ancora di più i mussulmani residenti in Francia e ovunque in Europa, o chi di questi tempi ha solo la sfortuna d’avere tratti arabi o provenienze geografiche orientali. Lo diventeranno, se lasceremo che si travalichi il limite del buon senso e si ceda alla tentazione di saziare la propria fame di giustizia alla mangiatoia dell’odio razziale che in queste ore politici e xenofobi riempiranno con secchiate di merda.

Troppe inutili vittime stanno perdendo la vita è la dignità in questi ultimi tempi.
Il 7 gennaio ormai non sarà più per il giornalismo, per la libertà e per l’Europa un giorno che si trascina stanco dopo le feste.
Cerchiamo almeno di farlo diventare, da qui in avanti, il giorno grazie al quale abbiamo capito che siamo tutti infedeli, traditori e nemici agli occhi dell’intolleranza. Senza differenze. 

Chi è Stato?

Avete inteso che fu detto dagli antichi: non uccidere; chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio.
Gesù, Discorso della Montagna

A ogni azione corrisponde una reazione pari e contraria.
Terzo principio della dinamica

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Adrees Latif , Reuters/Contrasto

Il tentativo è quello di indurci a credere Michael Brown sia morto per un incidente, occorso in una manovra di legittima difesa. Si sforzano di convincerci, scomodando picchi d’oratoria metafisica, che il diciottenne sia stato ucciso dai media, colpevoli d’aver raccontato versioni distorte di una realtà ben più pacificata. E quando s’accorgono di non riuscirci, accusano chi non abbocca all’amo della menzogna di essere complottista e sedizioso.
Secondo loro, dovremmo credere alla traballante storiella secondo la quale il poliziotto Darren Wilson avrebbe esploso sei proiettili per legittima difesa, in seguito a una presunta aggressione da parte di Michael Brown, avvenuta all’interno della stessa auto dell’agente, e proseguita per strada. Il ragazzo, in seguito a un breve tentativo di fuga, sarebbe infine tornato indietro e avrebbe caricato Wilson.
Secondo loro, dunque, avremmo dovuto credere anche alle urla del vicequestore Adriano Lauro, quando additando un manifestante tra i presenti in Piazza Alimonda quel 20 luglio di tredici anni fa, lo accusò per la morte di Carlo Giuliani: Bastardo! Lo hai ucciso tu, lo hai ucciso! Bastardo! Tu l’hai ucciso, col tuo sasso, pezzo di merda! Col tuo sasso l’hai ucciso! Prendetelo!”.
Secondo loro, dovremmo accontentarci della constatazione di morte di Federico Aldrovandi per arresto cardiocircolatorio imputabile all’assunzione di alcol e droghe, ignorando 54 lesioni ed echimosi sul corpo, tappandoci le orecchie alla registrazione della centrale operativa che testimonia “…l’abbiamo bastonato di brutto. Adesso è svenuto, non so… È mezzo morto”.
Secondo loro, dovremmo accettare senza batter ciglio le dichiarazioni dell’allora sottosegretario di Stato Carlo Giovanardi, quando cercò di spiegare a una nazione intera che Stefano Cucchi era morto d’anoressia e abuso di sostanze, insinuando addirittura fosse sieropositivo – e ‘sti cazzi dei lividi da percosse, e ‘sti cazzi della denutrizione.
Secondo loro, Ilaria Cucchi istiga all’odio e al sospetto nei confronti dell’intera categoria di soggetti operanti nell’ambito del comparto di sicurezza”, ma tutta questa rabbia e la solidarietà con le famiglie della vittime di Stato, le numerose e variamente coniugate forme di supporto alle battaglie contro l’abuso di potere delle forze dell’ordine, lo schifo nei confronti di chi infrange continuamente la legge, massacrando, umiliando e infine uccidendo chi invece dovrebbe proteggere affondano le radici in un sentimento di ira costante e deliberata, ancestrale nella sua evidenza: i neri (e i bianchi) a Ferguson incendiano, saccheggiano, protestano seguendo il terzo principio della dinamica: uguale e contraria, la reazione non si è fatta attendere. In psicologia, la furia irosa si manifesta come “reazione alla percezione deliberata di subire un trattamento ingiusto oppure un danno da altri soggetti”. E quando il danno è reiterato (su base razziale o non), e l’ingiustizia avallata dallo Stato, la collera s’imbrutisce in istinto di sopravvivenza.

Non c’è stupore nella rabbia di fronte all’ingiustizia.
Smettiamo la connivenza a chi crede che il potere sia nell’abuso.
Una vita vale più dell’ordine pubblico?

N. B. Per un elenco più esaustivo (purtroppo mai completo) delle vittime di Stato, rimando a questo link.

 

 

Se mi avessero detto: “un giorno, Alfonso ti farà piangere”, avrei risposto sorridendo, “ma non diciamo sciocchezze”. L’unico modo che potevi trovare per renderci tristi, era questo.

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Tutti abbiamo sentito parlare di Emergency, l’associazione italiana che offre cure di qualità alle vittime di guerra, delle mine antiuomo e della povertà. Ma non tutti, sicuramente, avranno sentito parlare di Alfonso.
Certo, lo conoscevamo in tanti, ma sembravamo sempre troppo pochi per la sua capacità di dedicarsi al prossimo. Sembrava sempre avesse una riserva d’amore, nascosta e inesauribile, dalla quale attingere per donarne.
Non tutti avranno sentito parlare di Alfonso, ed è ingiusto sia stata tolta la possibilità a chi fino a ora non ne ha avuta. Ma se conoscete, anche solo a grandi linee, Emergency e il lavoro di chi la sostiene, mi sarà più semplice tentare di farvi capire perché ci mancherà: Alfonso era altruista, un prezioso sostegno nei momenti difficili, sempre con una parola da regalare a chiunque, pacifista fino al midollo. Entusiasta e sorridente, ti trascinava all’interno degli eventi. E scherzava, con delicato rispetto, su tutto e su tutti, soprattutto su se stesso.

Anche quando per motivi personali sono stata mio malgrado costretta a sottrarre il tempo da dedicare all’associazione e a cambiare la mia modalità di supporto a Emergency, Alfonso è stato fra i pochi che ha continuato a contattarmi sempre.

I tuoi esami come vanno? E la scrittura? Ricordati che ho previsto un gran futuro per te, quindi attendo con trepidazione le tue nuove pagine,

mi chiedeva dopo una sessione d’esami.

E allora ti rispondo anche questa volta, Alfo, come sempre, facendo finta che nulla sia successo, facendo finta tu sia ancora qui: gli studi vanno bene anche se un po’ a fatica perché, come sai, lavoro in un supermercato per pagare le rate universitarie. Vado un po’ a rilento, ma mi prendo le mie soddisfazioni. Nel poco tempo libero, ho scritto una breve sceneggiatura con un’amica. A quanto pare, sta piacendo molto, i responsi sono positivi e vogliono produrci quanto ideato. Alla fine, caro Alfo, il gran futuro che avevi previsto per me si sta avverando: sono felice, sono in salute, sono fortunata. Ho una casa, un lavoro, degli amici e una famiglia. Perché è questa la felicità, no?

Non tutti avranno sentito parlare di Alfonso, ma lo faranno nei prossimi giorni. Rimarrà sulle nostre labbra, nei nostri discorsi, nelle riunioni, fra i banchetti, al centro delle manifestazioni, ovunque ci sia caciara, voglia di fare, amore e ottimismo. Alfonso sarà lì, a ricordarci che basta un piccolo gesto per aiutare il prossimo, lasciando un segno indelebile su questa terra.

Ciao, trafficante di sogni.

Ciao, “anziano amico” (so che anche stavolta non t’offenderai).

Ciao, padrone del tuo tempo.

Sarà pur vero che chi appartiene alla mia generazione è nato sapendo di essere intercambiabile, e che grazie a internet sa un po’ tutto di tutto. Sarà anche, aggiungo, che la donna mostra comunque di avere le risposte a ogni domanda in ogni ambito. Sarà pure che sotto ai suoi occhi ne vede passare di ogni. Ma la cassiera NON è una personal shopper.

Se le chiedete “dove posso trovare la farina di mais”, la cassiera disponibile può presentare due tipi di risposte: “in corsia 9”, oppure “dove sono tutte le altre farine (prodotte con tutti gli altri tipi di cereali al mondo, com’è logico che sia)”. La cassiera ben disposta, estremamente accondiscendente, in fase di preovulazione e quindi non mestruata e col culo girato, potrà anche decidere addirittura di accompagnarvi fino alla meta desiderata. Ma è bene sappiate che non le è stato impartito nessun corso specifico d’arte culinaria sui libri di Pellegrino Artusi prima d’essere assunta, perciò il quesito “sa in che proporzioni va aggiunta agli altri ingredienti per fare le arepas?” rimarrà per necessità irrisolto.

Non paghi, mentre si sta allontanando per tornare in cassa (perché sì, è proprio quello che fa dentro al supermercato, passa i prodotti e vi fa pagare), potrete nuovamente fermarla e chiederle: “signorina, mi scusi, e i bagnoschiuma?”. E lei, nuovamente, armandosi di buona pazienza, potrà condurvi in corsia 11, “Profumeria”, davanti a un muro di flaconi colorati, che se solo aveste avuto la buona creanza di usare le basi del pensare logico, avreste potuto trovare da soli. Ma anche qui, sappiate che non è in grado di rispondere alla domanda “secondo lei, questo shampoo per capelli colorati può danneggiare il cuoio capelluto?”, perché, avendo scelto di fare la cassiera, non ha alcuna esperienza come coiffeur e tanto meno se ne intende di bulbi piliferi, e non ha ottenuto nessun cazzo di master in dermatologia.

E infine, se dopo quest’ultima interruzione, riuscisse finalmente a incamminarsi verso la linea casse, e voi la richiamaste ancora una volta al suono di “signorina, e gli omogeneizzati?”, lei non solo non vi manderà a fanculo (e probabilmente, sarà solo perché non può, se vuole tenersi ‘sto stipendio da fame), ma tornerà indietro e vi dirà che sono due corsie più in là, mentre con ogni probabilità vorrebbe rispondere “Perdìo, due metri più in là, signora, usi gli occhietti e le gambucce che er padreterno j’ha donato e se li cerchi fra gli stramaledetti prodotti per gli infanti demmerda, e glielo dico subito, non ho alcuna idea se pe’ ‘n neonato co’ ‘e colichette renali sia mejo compra’ er conijo o er manzo perché, strafottuto il giorno che ho deciso de studia’ lettere, come pediatra ancora non me la cavo abbastanza, e come madre molto meno, visto che c’ho 25 anni, manco ‘n anno de contributi a’e spalle, so’ single, e co’ ‘sti spicci che me guadagno a mala pena pago l’affitto, figuramose se me posso permette’ ‘n fijo!”.

Frustrazioni a parte, ché voi non c’entrate pressoché nulla, vorrei infine ricordarvi che la cassiera e il commesso sono lì per darvi una mano, per rispondere alle vostre domande, ma non hanno un dottorato in tuttologia e tanto meno hanno il tempo e la voglia di seguirvi per tutto l’intero percorso all’interno del supermercato.

La spesa è ‘na cosa intima, come e più de ‘na cacata. Abbiate la buona creanza de falla da soli. 

Ché poi ce ne sarebbero di cose che tendono a infastidire un cassiere, ma in cima alla lista c’è:

quello che te vòle frega’ le buste.

Si tratta, spesso, di esemplari piuttosto mattutini, volitivi allo spasmo, dediti all’azione controversa che ai loro occhi pare essere la più lineare. Egli nutre un obiettivo, ingrassandolo a forza di aspettative e vacue soddisfazioni e si sveglia con un’unica velleità primordiale: te deve ‘ncula’.
Non importa come.
Non importa cosa.
Ma te deve ‘ncula’.

La superclasse in oggetto si suddivide in ulteriori categorie specifiche che, per bene di conoscenza e amore per la condivisione, elencherò, scusandomi sin da ora se apparirò fin troppo stringata e altrettanto diretta:

1) Quello che aspetta il “Basta così?” “Sì, grazie” “Sono 24, 50” “Ah, scusi, m’ero dimenticato: una busta”, convinto che, una volta pronunciato ad alta voce l’importo totale della spesa, un meccanismo impenetrabile e irreversibile scatti, impedendo al cassiere di aggiungere 0,12 € di busta. Rassicuro QCTVF: non solo possiamo tornare indietro, ma il vostro tentennare convinti di fregarci è la scintilla che appicca la miccia del nostro rodimento di culo. Ed è per questo che aggiungiamo fino all’ultima fottuta misera busta.

2) Quello che viene accompagnato dall’infante e lo usa come mezzo per corrompere il cassiere: “Come dici, Robertino? Sì, sì, certo che la cassiera ci regala una busta, vero?”. Robertino ha a mala pena due anni. Non sa manco che è lui, il Robertino interpellato. Robertino, però, capirà presto che ha una nonna cerebrolesa, convinta d’essere scaltra e simpatica. Pòro Robertino.

3) Quelli del “Mannaggia, ho dimenticato le buste a casa! Ma ci crede? Sono piena, ma talmente piena che le ho pure regalate alla donna delle pulizie”, persuasi che questo basti a farci intenerire e convincere che la persona che abbiamo di fronte non è affatto una purciara demmerda, ma una benefattrice della comunità capitata purtroppo in uno di quei giorni no. 

4)  Quelli che, siccome si fanno imbustare la spesa dalla donna delle pulizie, sono convinti che basterà prendere un sacchetto di cartone per 259,17 € di spesa. “Ma come, Estrella? Come non c’entra tutta la roba in una busta?!”. Questa è l’unica categoria che frega davvero il cassiere: per aiutare la povera Estrella, regala buste in quantità industriali. 

5) Quelli del “Sono stata operata alla spalla non posso portare pesi non è che mi regala 8 buste?”. E no, la categoria in questione non è composta da polipi. 

6) (per me, i migliori) Quelli che fanno la spesa a una cassa, e poi chiedono una busta al cassiere successivo: “Mi scusi, la collega s’è dimenticata di darmi la busta. Me la dà lei?”. CHE TE DO’ IO?! UNA PAPAGNA ‘N FACCIA, TE DO’!

Questo, per necessità di sintesi. 

Poi, per la cronaca, io sono una di quelle che si farà licenziare solo perché non ha mai fatto pagare ‘na busta in vita sua. Ma prova a fregarmi e t’ammazzo la famiglia. Col napalm.

Ogni mattina un cassiere si sveglia e sa che dovrà correre più veloce della prima vecchia che aspetta davanti all’ingresso dalle sei di mattina – ché i vecchi, se sa, so’ ‘n po’ così, fanno la fila dallo spuntare del primo raggio di sole ovunque (un’altra massima potrebbe essere, in effetti, “per quanto presto tu possa fare, ci sarà sempre un vecchio che è arrivato prima di te”, ma tant’è).
Sebbene il supermercato apra solo alle otto, l’instancabile vecchina è lì da ore, e sarà anche probabilmente già passata a fare il vaccino dal medico, ad accompagnare i nipoti a scuola, a scassare il cazzo alla vicina per l’acqua delle piante che cola sul balcone, a fare i salmi mattutini in Chiesa, a controllare che i lavori della metro procedano secondo norme note solo ai vecchi come lei, e sarà anche stata abbondantemente col fiato sul collo alla rumena (unico esemplare che si svegli prima dei vecchi, per non parlare delle rumene vecchie poi!) per controllare che non usi proprio quella pezza lì per pulire i vetri ché glieli riga, che poi la stronza lo sa e continua a farlo.
Il cassiere, specie in via d’estinzione, destinato a stress e nevrosi che manco i combattenti al fronte, si starà ancora fumando la prima (forse ultima) sigaretta nella lacerante attesa di varcare la soglia dell’inferno, quando sentirà una vocina rauca, sottile, penetrante, molesta, vecchia insomma, chiedere: “ma quando aprite?”.
E il suddetto cassiere, che vorrebbe placidamente ma altrettanto enfaticamente rispondere “l’anno del cazzo, signora”, si limiterà invece a inspirare l’ultima boccata di fumo, a spegnere la sigaretta e a sbuffare “alle otto, signora. Sono le otto meno cinque”.
Quand’anche si fosse fortunati (il che accade raramente per inciso), ci si troverebbe di fronte ad una faccia che potrei definire altrimenti e più gentilmente ma che non riesco a rendere meglio se non con l’espressione “di cazzo”, che in realtà sottintende un più esplicito “ma guarda te ‘sti stronzi non c’hanno voja de fa ‘na sega”.
Il che, com’è logico che sia, indispone ancora di più il cassiere nei confronti del suo lavoro e del mondo che lo circonda, e contribuirà a instillare nella sua mente ormai logora immagini cruente di morti non troppo accidentali nell’affettatrice della gastronomia e di corpi esanimi lasciati a sgocciolare sul banco del pesce.

Perciò sappiate, vecchi e non, che se alla cassa incontrate un/a ragazzo/a col culo girato, non troppo loquace e col sorriso finto stampato in faccia dovrete ringraziare Iddio ché vi sarebbe potuta andare molto, ma molto peggio.

Esperimento di Pavlov

“Curiamo persone”. #noallespesemilitari. Palazzo Valentini. Via dell’Arco del Monte.
E allegorie da decifrare. Quella della pace, su tutte.

Pace

Una bambina che corre giù con un monopattino, sui raggi lastricati di Piazza del Campo. La torre assolata. Il marocchino senese originario di Montesacro. E Domenico che dice “Siena di tre cose piena” – di qualcosa, di qualcos’altro e di coglioni, me lo ricordo.
Una statua di una bimba dormiente col monito perenne “non destatela”. La Sala del Risorgimento, visitata all’apertura, in solitudine, col solo tubare dei piccioni sul parapetto. Un rigurgito d’orgoglio al “Liberi non sarem se non siamo uni”, alle parole del Petrarca. A ‘sta cazzo d’Italia, perdìo s’è bella.
Le lacrime esagerate per Lorenzetti, per l’idea che il tempo mangerà del tutto gli effetti dei vizi in campagna e in città. E anche la rosa d’oro di Pio II appassisce, prima o poi. Tutto lo fa.
E il rosso. E il bianco. La luce negli occhi. La pioggia negli occhi. L’idea che tutto è apparso più gestibile, per quanto meno sopportabile. Nuova e da conoscere.
Le lacrime esagerate. Le risate esagerate. Apparire dissociata, giustificare pianto e sorriso con una chiamata improvvisata a chi c’è sempre. Anche quando improvvisi.
Il desiderio di farsi una doccia, per togliersi qualcosa di dosso – prima di tutto, lo sporco e il sudore. Recitare sempre gli stessi ruoli, again and again. Per anni, con tutti, non ha funzionato. Dovrebbe farlo ora?
Le lacrime esagerate per le stesse due canzoni rimesse a loop. Impararne il testo a memoria, immaginarne lo spartito. Sentirsi idiota per la semplicità.
Uno sciroppo sbagliato. Un gusto sbagliato. Un brodo sbagliato. Il tutto, però, scelto con la giusta attenzione (dedizione?), a discapito dell’effetto. Il flusso di pensiero, libero. La catena di gestualità, interrotta.
Le lacrime esagerate perché mi sembra d’aver passato tutta la vita in silenzio, nella stanza di un uomo per cercare di non svegliarlo. Ed è bello, di qualsiasi cosa mi si accusi. Sono di gioia, le lacrime, forse. Fino a quando vedi che c’è di peggio. Leggi.
Scoprire di non avere senso dell’umorismo, se non per quel poco che basta all’imprinting.

E di non saper creare il vuoto, di saperlo riempire soltanto per poco tempo e per pochi ambiti.

Sono uno dei cani di Pavlov. Sono un riflesso incondizionato.  

Mi ricordo tuo figlio

Roma col freddo, e le anziane che passeggiano lente in quel momento della giornata che pare il più propizio per tutto, scegliendo con instancabile cura il più bel mazzo di fiori finti da acquistre, è poesia.
Come se i fiori fossero diversi. Come non fossero finti e senza profumo. Come se fosse l’evento più importante della giornata – che poi, lo è.
Mentre penso che Roma in certi momenti dell’anno, col cuore e con l’animo allineati fra loro, è un gran bel posto per esserci, t’incontro per le scale.
Sei sempre più magra, e sempre più bella. Gli anni passano, e avrai superato i cinquanta, anche tua figlia se ne è andata di casa. Ha trovato l’amore, me lo disse venenedo a comprare dei mobili quando ancora lavoravo nella scatola giallablu. La vecchia ancora spettegola se riescano a vivere da soli, ché ogni tanto li vede salire da te.
Mi ricordo le pareti nelle stanze dei tuoi figli, colorate, armoniose, accoglienti, calde.
Mi ricordo tuo figlio.
Oggi, guardandoti per la prima volta dopo troppe volte in cui t’ho solo vista, ho capito che eri invecchiata. Ma non per l’età, né per i segni del tempo sul tuo viso – quanto sei bella, te l’ho mai detto? Sei invecchiata perché sei la madre di qualcuno che non ha più bisogno di te, di qualcuno che non c’è.
Mi ricordo tuo figlio.
Solo oggi ci ho pensato, a quanto m’imbarazzasse incontrarti con lui, ché non sapevo mai come comportarmi, se allungare una mano sul viso e fargli una carezza, se parlargli disinvolta, ignorando la sedia a rotelle. Eravamo coetanei. Lo saremmo ancora stati.
Solo oggi mi ricordo tuo figlio.
Tagliano i fondi alla salute, lo sai? Meno contributi ai malati di SLA. Ogni tanto ripenso al furgoncino che lo veniva a prendere per portarlo a scuola, e a te, che tutti i giorni aspettavi paziente in mezzo alla strada che lo riportassero indietro. Dalla mamma, dall’unica donna che sapeva come relazionarsi.
Oggi ripenso a tuo figlio, penso che avrebbe quasi 24 anni.
Penso che oggi gli parlerei, per raccontargli che schifo che stanno facendo lassù ai piani alti, e m’inventerei che noi giovani ci stiamo impegnando per combattere anche per lui e ottenere un presente migliore. Inventerei che non ci indigniamo soltanto a parole. Gli mentirei, dicendogli che presto cambierà tutto.
Mi ricordo tuo figlio. Ed è strano, mi manca.

Dice che siamo “choosy”.

Braccia strappate al lavoro, quello vero.

     Per forza di generalizzazioni, mi riscopro d’accordo. Oppure, sarà perché i “giovani” che conosco io sarebbe meglio definirli schizzinosi (che sono gli stessi che ti sparano tre ore di pippa su come sia ontologicamente superiore il cinema in lingua originale coi sottotitoli, e ‘sti giorni si so’ dovuti anna’ a cerca’ come se scriveva “schizzinosi” – manco sullo Zingarelli, poi, ma col correttore automatico del T9 – pe’ scrive du righe de protesta).
     Siamo una generazione di esigenti, di “misentostocazzo” perché ho preso una laurea e no, col cazzo che ci vado a lavorare al call center. Sì, sì, d’accordo, sentitevi indignati (che pure questo va tanto di moda), ma la realtà dei fatti è che da quando hanno esteso la possibilità di ottenere una laurea a pressocché chiunque (anche qui, ragioniamo per generalizzazioni, s’intende), pressocché chiunque si arroga il diritto di ottenere un lavoro coerente al suo percorso di studi. ‘na cifra de scienziati delle comunicazioni che chissà che cazzo dovranno mai scoprire, spintonano i laureati in lettere all’ingresso delle case editrici, mentre i neo giuristi si pigliano per i capelli per un posticino nella rubrica d’attualità politica.

     Il mondo è stato in questi giorni tappezzato di cartelli attraverso i quali centinaia di giovani imponevano la condivisione della propria carriera infame, fatta di collaborazioni in nero e a progetto, di licenziamenti immotivati e di mensilità spese a spalare nella merda; e io a fianco avrei gradito spuntare altre centinaia di fogli con su scritta la verità di chi, in questo paese, non vuole fare un cazzo, di quelli che, da una vita, rifiutano di fare i camerieri “perché non son capaci”, di fare i cassieri “perché degradante”, di prendere in mano un fottuto arnese “perché la classe operaia è morta da un pezzo, e comunque non è andata in paradiso”. 

     Mi è stato detto che rinunciare a studiare per accettare un lavoro da commessa in una GTO sarebbe stato un “livellarsi”. Tocca svegliarsi, invece, perché, sarà un mio limite, non riesco a credere alla sincerità di tutte quelle masse scaraventate in piazza che si stracciano le vesti e si dilaniano i corpi, si lamentano, piangono perché non avranno un futuro. Certo, noi, generazione X.1 e X.2 non avremo né il futuro che (forse) ci saremmo meritati, né tantomeno quelli che idealizziamo. Perché, come disse il buon Monicelli, …

 Quello che in Italia non c’è mai stato, è una bella botta, una bella rivoluzione, Rivoluzione che non c’è mai stata in Italia… c’è stata in Inghilterra, c’è stata in Francia, c’è stata in Russia, c’è stata in Germania, dappertutto meno che in Italia. Quindi ci vuole qualcosa che riscatti veramente questo popolo che è sempre stato sottoposto, 300 anni che è schiavo di tutti.

 E allora, che cazzo ci piangiamo? Zitti, e andate a spalar merda. E se vi si dice che siete “choosy”, abbiate la buona creanza di protestare a bassa voce, fosse mai che l’hipster accanto a voi vi tacci di radicalchicchismo.