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Posts Tagged ‘lavoro’

Sarà pur vero che chi appartiene alla mia generazione è nato sapendo di essere intercambiabile, e che grazie a internet sa un po’ tutto di tutto. Sarà anche, aggiungo, che la donna mostra comunque di avere le risposte a ogni domanda in ogni ambito. Sarà pure che sotto ai suoi occhi ne vede passare di ogni. Ma la cassiera NON è una personal shopper.

Se le chiedete “dove posso trovare la farina di mais”, la cassiera disponibile può presentare due tipi di risposte: “in corsia 9”, oppure “dove sono tutte le altre farine (prodotte con tutti gli altri tipi di cereali al mondo, com’è logico che sia)”. La cassiera ben disposta, estremamente accondiscendente, in fase di preovulazione e quindi non mestruata e col culo girato, potrà anche decidere addirittura di accompagnarvi fino alla meta desiderata. Ma è bene sappiate che non le è stato impartito nessun corso specifico d’arte culinaria sui libri di Pellegrino Artusi prima d’essere assunta, perciò il quesito “sa in che proporzioni va aggiunta agli altri ingredienti per fare le arepas?” rimarrà per necessità irrisolto.

Non paghi, mentre si sta allontanando per tornare in cassa (perché sì, è proprio quello che fa dentro al supermercato, passa i prodotti e vi fa pagare), potrete nuovamente fermarla e chiederle: “signorina, mi scusi, e i bagnoschiuma?”. E lei, nuovamente, armandosi di buona pazienza, potrà condurvi in corsia 11, “Profumeria”, davanti a un muro di flaconi colorati, che se solo aveste avuto la buona creanza di usare le basi del pensare logico, avreste potuto trovare da soli. Ma anche qui, sappiate che non è in grado di rispondere alla domanda “secondo lei, questo shampoo per capelli colorati può danneggiare il cuoio capelluto?”, perché, avendo scelto di fare la cassiera, non ha alcuna esperienza come coiffeur e tanto meno se ne intende di bulbi piliferi, e non ha ottenuto nessun cazzo di master in dermatologia.

E infine, se dopo quest’ultima interruzione, riuscisse finalmente a incamminarsi verso la linea casse, e voi la richiamaste ancora una volta al suono di “signorina, e gli omogeneizzati?”, lei non solo non vi manderà a fanculo (e probabilmente, sarà solo perché non può, se vuole tenersi ‘sto stipendio da fame), ma tornerà indietro e vi dirà che sono due corsie più in là, mentre con ogni probabilità vorrebbe rispondere “Perdìo, due metri più in là, signora, usi gli occhietti e le gambucce che er padreterno j’ha donato e se li cerchi fra gli stramaledetti prodotti per gli infanti demmerda, e glielo dico subito, non ho alcuna idea se pe’ ‘n neonato co’ ‘e colichette renali sia mejo compra’ er conijo o er manzo perché, strafottuto il giorno che ho deciso de studia’ lettere, come pediatra ancora non me la cavo abbastanza, e come madre molto meno, visto che c’ho 25 anni, manco ‘n anno de contributi a’e spalle, so’ single, e co’ ‘sti spicci che me guadagno a mala pena pago l’affitto, figuramose se me posso permette’ ‘n fijo!”.

Frustrazioni a parte, ché voi non c’entrate pressoché nulla, vorrei infine ricordarvi che la cassiera e il commesso sono lì per darvi una mano, per rispondere alle vostre domande, ma non hanno un dottorato in tuttologia e tanto meno hanno il tempo e la voglia di seguirvi per tutto l’intero percorso all’interno del supermercato.

La spesa è ‘na cosa intima, come e più de ‘na cacata. Abbiate la buona creanza de falla da soli. 

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Ogni mattina un cassiere si sveglia e sa che dovrà correre più veloce della prima vecchia che aspetta davanti all’ingresso dalle sei di mattina – ché i vecchi, se sa, so’ ‘n po’ così, fanno la fila dallo spuntare del primo raggio di sole ovunque (un’altra massima potrebbe essere, in effetti, “per quanto presto tu possa fare, ci sarà sempre un vecchio che è arrivato prima di te”, ma tant’è).
Sebbene il supermercato apra solo alle otto, l’instancabile vecchina è lì da ore, e sarà anche probabilmente già passata a fare il vaccino dal medico, ad accompagnare i nipoti a scuola, a scassare il cazzo alla vicina per l’acqua delle piante che cola sul balcone, a fare i salmi mattutini in Chiesa, a controllare che i lavori della metro procedano secondo norme note solo ai vecchi come lei, e sarà anche stata abbondantemente col fiato sul collo alla rumena (unico esemplare che si svegli prima dei vecchi, per non parlare delle rumene vecchie poi!) per controllare che non usi proprio quella pezza lì per pulire i vetri ché glieli riga, che poi la stronza lo sa e continua a farlo.
Il cassiere, specie in via d’estinzione, destinato a stress e nevrosi che manco i combattenti al fronte, si starà ancora fumando la prima (forse ultima) sigaretta nella lacerante attesa di varcare la soglia dell’inferno, quando sentirà una vocina rauca, sottile, penetrante, molesta, vecchia insomma, chiedere: “ma quando aprite?”.
E il suddetto cassiere, che vorrebbe placidamente ma altrettanto enfaticamente rispondere “l’anno del cazzo, signora”, si limiterà invece a inspirare l’ultima boccata di fumo, a spegnere la sigaretta e a sbuffare “alle otto, signora. Sono le otto meno cinque”.
Quand’anche si fosse fortunati (il che accade raramente per inciso), ci si troverebbe di fronte ad una faccia che potrei definire altrimenti e più gentilmente ma che non riesco a rendere meglio se non con l’espressione “di cazzo”, che in realtà sottintende un più esplicito “ma guarda te ‘sti stronzi non c’hanno voja de fa ‘na sega”.
Il che, com’è logico che sia, indispone ancora di più il cassiere nei confronti del suo lavoro e del mondo che lo circonda, e contribuirà a instillare nella sua mente ormai logora immagini cruente di morti non troppo accidentali nell’affettatrice della gastronomia e di corpi esanimi lasciati a sgocciolare sul banco del pesce.

Perciò sappiate, vecchi e non, che se alla cassa incontrate un/a ragazzo/a col culo girato, non troppo loquace e col sorriso finto stampato in faccia dovrete ringraziare Iddio ché vi sarebbe potuta andare molto, ma molto peggio.

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Dice che siamo “choosy”.

Braccia strappate al lavoro, quello vero.

     Per forza di generalizzazioni, mi riscopro d’accordo. Oppure, sarà perché i “giovani” che conosco io sarebbe meglio definirli schizzinosi (che sono gli stessi che ti sparano tre ore di pippa su come sia ontologicamente superiore il cinema in lingua originale coi sottotitoli, e ‘sti giorni si so’ dovuti anna’ a cerca’ come se scriveva “schizzinosi” – manco sullo Zingarelli, poi, ma col correttore automatico del T9 – pe’ scrive du righe de protesta).
     Siamo una generazione di esigenti, di “misentostocazzo” perché ho preso una laurea e no, col cazzo che ci vado a lavorare al call center. Sì, sì, d’accordo, sentitevi indignati (che pure questo va tanto di moda), ma la realtà dei fatti è che da quando hanno esteso la possibilità di ottenere una laurea a pressocché chiunque (anche qui, ragioniamo per generalizzazioni, s’intende), pressocché chiunque si arroga il diritto di ottenere un lavoro coerente al suo percorso di studi. ‘na cifra de scienziati delle comunicazioni che chissà che cazzo dovranno mai scoprire, spintonano i laureati in lettere all’ingresso delle case editrici, mentre i neo giuristi si pigliano per i capelli per un posticino nella rubrica d’attualità politica.

     Il mondo è stato in questi giorni tappezzato di cartelli attraverso i quali centinaia di giovani imponevano la condivisione della propria carriera infame, fatta di collaborazioni in nero e a progetto, di licenziamenti immotivati e di mensilità spese a spalare nella merda; e io a fianco avrei gradito spuntare altre centinaia di fogli con su scritta la verità di chi, in questo paese, non vuole fare un cazzo, di quelli che, da una vita, rifiutano di fare i camerieri “perché non son capaci”, di fare i cassieri “perché degradante”, di prendere in mano un fottuto arnese “perché la classe operaia è morta da un pezzo, e comunque non è andata in paradiso”. 

     Mi è stato detto che rinunciare a studiare per accettare un lavoro da commessa in una GTO sarebbe stato un “livellarsi”. Tocca svegliarsi, invece, perché, sarà un mio limite, non riesco a credere alla sincerità di tutte quelle masse scaraventate in piazza che si stracciano le vesti e si dilaniano i corpi, si lamentano, piangono perché non avranno un futuro. Certo, noi, generazione X.1 e X.2 non avremo né il futuro che (forse) ci saremmo meritati, né tantomeno quelli che idealizziamo. Perché, come disse il buon Monicelli, …

 Quello che in Italia non c’è mai stato, è una bella botta, una bella rivoluzione, Rivoluzione che non c’è mai stata in Italia… c’è stata in Inghilterra, c’è stata in Francia, c’è stata in Russia, c’è stata in Germania, dappertutto meno che in Italia. Quindi ci vuole qualcosa che riscatti veramente questo popolo che è sempre stato sottoposto, 300 anni che è schiavo di tutti.

 E allora, che cazzo ci piangiamo? Zitti, e andate a spalar merda. E se vi si dice che siete “choosy”, abbiate la buona creanza di protestare a bassa voce, fosse mai che l’hipster accanto a voi vi tacci di radicalchicchismo.

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Be’, già, è triste.
Non è mai un evento allegro quando qualcuno si toglie la vita, e lo so quanto ci si sente tutti fin troppo colpevoli dell’atto altrui. Ma poi, passato il primo empatico momento di fusione delle anime, a tratti, quasi non ce ne sbatte più il cazzo. Diciamocelo: noi continuiamo a vivere.

Perché lo facciamo? Facile, siamo più forti. O forse abbastanza lungimiranti da comprendere che la vita è fatta di periodi belli e brutti, momenti in cui tutto ti arride e fasi in cui sprofondi nell’abisso, e che, per ordine precostituito, o forse per vichiana memoria, i corsi ed i ricorsi storici riporteranno tutto all’equilibrio. Cristo Iddio, nessuno sta chiedendo a quest’ondata d’imprenditori falliti (o in via di fallimento)di abbracciare entusiasticamente la prospettiva di un eterno ritorno nietzschiano!
No, piuttosto si sta chiedendo loro il famoso sacrificio che Mariomonti&co. sta pretendendo da tutti (i poveracci, chiaro), e che, se si riuscisse a mantenere una certa lucidità, si capirebbe di compiere fondamentalmente per i propri figli, questi illustri sconosciuti.

Togliendosi la vita, non ci si toglie dai problemi, ma dalla vita; i problemi restano a chi resta, mogli, figli, eredi. Ma ‘sti cazzi, dicono loro, i 38 eroi suicidi che le piazze piangono, intanto io mi do, e vi lascio l’onere e l’onore di sobbarcarvi le migliaia di euro di cazzate accumulate nella vita. Cosa pensa, invece, l’imbianchino o l’impiegato che, sottrattegli ore di lavoro straordinario, ritiene che non valga più la pena vivere?
Già, non potevate più mantenere i vostri figli (o il vostro status sociale di pseudo-piccoloborghesi cui il boom economico vi aveva abituato, lasciandovi dormire con tre telefonini sul comodino e con una moglie botulinata a fianco), allora tanto vale mandare tutto allo sfascio, e andarsene, con i vostri pargoli all’improvviso abbastanza maturi da pensare a se stessi – voi non ci siete più per loro, ricordate?

Che bell’esempio di vita, che bell’immagine!  Adesso sì che il futuro che avete garantito alla prole sarà migliore: senza un euro e senza un padre. Da applausi e lacrime, proprio.

Ma la colpa non è vostra, dicono. La colpa è della crisi, mietitrice d’anime del XXI secolo.
Mi ricorda molto ciò che accadde subito dopo la pubblicazione de “I dolori del giovane Werther”, quando enfatiche folle di innamorati si procacciarono la morte autoindotta nei modi e nelle maniere più disparate. Anche allora si disse: “E’ colpa del Werther!”, senza accorgersi che si puntava il dito contro un’entità astratta, affatto sensibile, ancor meno incolpabile.

Non diciamoci cazzate. Si stava aspettando il famoso pretesto per incolpare la crisi che, per sineddoche, avrebbe redistribuito le colpe ai famosi “governi precedenti” ed attuali.  
Osservando i dati del 2011, ed affacciandoci sui provvisori dell’anno corrente, indovinate cosa si scopre? Che, eccezion fatta per i suicidi d’onore, quelli mossi da motivi economici continuano ad essere i meno preoccupanti. La gente continua ad ammazzarsi per i soliti, banali, scontati motivi di sempre: per malattia (sai, prima che ci pensi il cancro a portarti via senza possibilità d’appello fra reali e strazianti dolori, ci pensi su un attimo se valga davvero la pena continuare) o per amore (‘sta cazzata, della quale ne potrai avere a centinaia di copia nella vita- la vita che invece rimane unica, tu pensa che ironia).

Ma continuiamo a battere su questo tasto, proseguiamo nel pubblicizzare questo del tutto simile bollettino di guerra, aggiornando i dati giorno per giorno; ma vi prego, quando piangiamo la morte di qualcuno di questi eroi, riflettiamo a tutti quelli che da anni si fanno il culo per mantenere davvero i figli, che si spezzano la schiena e vivono avvolti nell’angoscia di un futuro incerto pur di garantirlo nonostante tutto, e quando abbracciamo le così dette “vedove bianche” di questi suicidi, pensiamo a quelle donne cui il marito è stato strappato alla vita da reali morti bianche, da mancanza di sicurezza sul lavoro mentre lavoravano, da garanzie affatto garantite.
Forse, alla fine, come me, comincerete a nutrire un po’ di insofferenza.

Buona crisi a tutti.

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“Io non ho pensieri mai quando sono coinvolto completamente, a tutte le ossessioni posso dire addio quando sto realizzando quello che sento”

 

Ho sempre pensato che la risposta: “Non ho tempo” a qualsivoglia domanda propositiva, rappresentasse unicamente una scorciatoia burocratica e formale per non cadere nella volgarità del “Non lo faccio perché nun me va. E, de base, fatte pure ‘i cazzi tua!”.
Ebbene, sposando una teoria vagamente attinente al puro empirismo, ho sperimentato che c’è gente che davvero “non ha tempo” di fare le cose. Mi piacerebbe tornare a scrivere per me stessa, come una volta, quando sentivo l’esigenza catartica di spiattellare la merda su un foglio di carta, e vomitare odio e bile, e coccolarmi all’idea di essere inadeguata. Ma, a quanto pare, oltre a non avere il suddetto tempo – che, a prescindere, non credo si possa possedere – (e considerato che quella di oggi rappresenta una piacevole eccezione), credo di non saper neanche più giostrare quegli strumenti acuminati che l’insofferenza mi allungava di sottecchi.

Dicono che il Natale renda tutti più buoni, ma anche l’amour se la batte strenuamente – lascia perdere il Natale, almeno per ora, che ho già visto panettoni in bella mostra sugli scaffali.
Ho capito che quando s’è “coinvolti completamente”, per citare i Lombroso, non s’ha tempo per odiare altri che quelli che minacciano la tua attuale felicità. E allora, di tutto ciò che una volta non sopportavo, adesso mi rimangono solo: le donne (belle e brutte, alte o basse, magre o grasse), i dolori (e il Giovane Werther), l’università (che non parte e non lascia partire neanche me), il lavoro che non c’è (e che pure se ci fosse, toccherebbe sempre vedere se…).

Non basta.  Dico, non basta per continuare a rendere interessante questo blog – sempre sperando che una volta lo sia stato – con la cadenza settimanale degli inizi. E allora scrivo quando ne ho bisogno.
E non è forse sempre così?

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